Quest’ultima settimana si è inaugurata con l’apertura degli incontri bilaterali tra Governo e parti sociali e si rivelerà decisiva per la riconfigurazione del mercato del lavoro.
Le problematiche al vaglio sono molto complesse e la loro soluzione si tradurrà in una epocale riforma del diritto del lavoro che interesserà, e terrà impegnati, non solo i giuslavoristi ma anche e soprattutto tutti quei lavoratori che da decenni soffrono gli effetti di un’inaccettabile precarietà aggravata dalla perdurante sussistenza di una netta linea di demarcazione tra alcuni prestatori protetti oltremisura a totale discapito degli altri. Il tentativo sarà quello di inaugurare una stagione riformista che chiuda definitivamente il sipario su quel rigido dualismo che ha contrapposto i lavoratori a tempo indeterminato protetti dalle leggi e dai contratti e i precari quasi senza leggi e diritti contrattuali. Bisogna far ripartire l’economia e varare un piano che riaccenda l’occupazione; senza interventi immediati la carenza di lavoro e la scarsità di reddito, nei prossimi mesi, potrebbe determinare l’esplosione di tensioni sociali. Non sarà facile congegnare un intervento di ampio respiro che soddisfi tutti e che sia adottato in tempi celeri. Il ministero del Welfare ha già avviato lo svecchiamento del nostro ordinamento previdenziale avviando una riforma del sistema pensionistico che porterà, nel corso dei prossimi anni, alla totale adozione del sistema contributivo pro quota e che, tra gli altri effetti, determinerà l’innalzamento graduale dell’ età pensionabile, tanto per gli uomini quanto per le donne, portando l’attuale tetto fino a 70 anni, con la specifica previsione di una serie di finestre di fuoriuscita per quei lavoratori che nell’anno in corso avevano già maturato l’età pensionabile, secondo la normativa previgente, e che avrebbero quindi subito gli effetti negativi di una permanenza coatta sul posto di lavoro per effetto della nuova normativa. La riforma del mercato del lavoro e della previdenza sono due facce della stessa medaglia: non si può ambire ad una buona pensione se non si è avuto modo di esercitare la propria attività lavorativa in ottimali condizioni. E’ risaputo che una prestazione lavorativa esercitata in un contesto all’avanguardia e assistita da buoni standard di tutela incentiva il lavoratore migliorando la qualità dell’attività prestata e quindi incrementando la sua produttività. Le parole d’ordine che devono guidare l’attività di questo Governo atipico, dai tempi peraltro estremamente contingentati, sono proprio crescita, produttività e quindi riallineamento con i parametri europei soprattutto in tema di contenimento del disavanzo e del tasso di disoccupazione, di cui pagano maggiormente le spese i più giovani e le donne che, invece, dovrebbero rappresentare l’elemento trainante e svecchiante di un’economia, come quella italiana, da anni ferma e avvitata su sé stessa, se non addirittura avviata verso una lenta ma graduale e irrefrenabile recessione.
Al di là delle lacrime versate e delle polemiche, spesso alimentate in maniera arida e sterile e non accompagnate da valide argomentazioni, la riforma del sistema pensionistico elaborata dal ministro Fornero è stata pensata, e nel lungo periodo si rivelerà, come uno dei primi passi verso un cambiamento del “ciclo di vita” di tutti gli italiani e che ha tutte la potenzialità per rendere i moduli economici e sociali adottati dal nostro Paese più dinamici, equi e sostenibili. È un dato di fatto che il tenore e l’aspettativa di vita si sono notevolmente dilatati e questo ha reso necessaria una riforma del nostro sistema normativo la quale, più che per la sua portata, deve semmai sconvolgere per le metodiche attraverso la quale è stata adottata e introdotta a regime. L’estensione della forma pro rata e del metodo contributivo rappresenteranno il fulcro di un patto generazionale in un’epoca contrassegnata dalla presenza, nel nostro sistema, di svariate tipologie lavorative e che ammette come eccezione il lavoro standard e a tempo indeterminato. La logica emergenziale ancora una volta ha animato l’attività del legislatore rendendo possibile un rinnovamento che in condizioni di dialogo diverse non sarebbe avvenuto, allontanando così un appuntamento con l’Europa ormai divenuto non più rinviabile. Troppo a lungo si è temporeggiato su temi importanti e scottanti come quelli sui quali ci stiamo soffermando, ignari dell’impatto dirompente di un sistema contrattuale parcellizzato, paragonabile ad una vera e propria giungla di regole e discipline selvagge, e questo o perché i governi hanno preferito focalizzare l’attenzione su altri problemi riferiti al Paese, ma la cui soluzione è stata tentata attraverso numerose leggi e leggine ad personam, o perché si sono dimostrati incapaci di gestire con la dovuta serietà e anche determinazione la troppa flessibilità, e la corrispondente incertezza, introdotta con riferimento alla durata e alla gestione del rapporto di lavoro. Fino ad ora le politiche dello Stato che dovrebbero accompagnare il cittadino “dalla culla alla tomba” hanno funzionato malissimo e il welfare ha privilegiato la terza età; il momento dell’ingresso nel mondo del lavoro si è allontanato per molti, sempre più, divenendo quasi un miraggio senza le “spinte” clientelari o familiari. Per rilanciare la crescita è necessario contare principalmente sul dinamismo e le competenze di tutti i potenziali lavoratori e lavoratrici, di età compresa tra i 18 e i 40 anni, che stanno attraversando la cosiddetta prime age cioè l’età più produttiva. Attraverso una buona parte delle risorse liberate dalla recente riforma previdenziale si dovrà puntare sulla formazione e sulla realizzazione di canali di inserimento lavorativo che privilegino le professionalità più giovani. Ai sindacati, che hanno mostrato una certa rigidità e impermeabilità a tali prospettive di cambiamento, è richiesto di tenere un atteggiamento di apertura e di dialogo costruttivo che non degeneri nell’assunzione e nel mantenimento di petizioni di principio. Il Welfare potrà contribuire alla crescita e alla remissione dell’attuale crisi di tutti i settori solo attraverso l’appoggio di politiche che agevolino e migliorino il lavoro di uomini e donne e attraverso la costruzione di nuove soluzioni volte ad annientare il dualismo di un mercato dove c’è chi è troppo garantito e chi non ha praticamente protezioni di sorta.
In questa prima fase il Ministro Fornero ha voluto ascoltare le analisi e le proposte delle diverse sigle sindacali e delle organizzazioni imprenditoriali. Le riforme dovranno essere pensate in un’ottica di riduzione della precarietà: è necessaria una revisione degli ammortizzatori sociali che non dovranno essere più inquadrati tra gli strumenti assistenziali ma dovranno essere sfruttati come mezzi dinamici che realizzino una politica attiva del lavoro. E’, inoltre, auspicabile procedere ad un taglio netto di quella selva contrattuale che alimenta il lavoro atipico, interinale, flessibile, precario e le collaborazioni a progetto e a tempo sempre più limitato e ristretto. Una giungla di discipline contrattuali che determina incertezza nei percorsi professionali, allontana dalla stabilizzazione i rapporti di lavoro e provoca un alto e lungo contenzioso davanti ai giudici competenti. Se l’Italia vuole crescere e recuperare un minimo di peso nello scacchiere economico internazionale non può più relegare ai margini le nuove generazioni, dovrà semmai perseguire delle politiche, fino ad ora inesplorate, che consentano e agevolino l’inserimento nel mondo del lavoro: la condizione di precarietà non potrà più protrarsi oltre un certo range temporale e dovrà comunque essere finalizzata all’assunzione di una propria professionalità e alla stabilizzazione all’interno del mercato del lavoro, traguardo che appare necessario anche per garantire ai giovani lavoratori un futuro previdenziale, dato che ormai le pensioni verranno calcolate solo ed esclusivamente sulla base dei contributi versati durante l’arco della carriera lavorativa.
Il Presidente Monti ha assicurato che la riforma, qualunque siano i suoi esiti, non travolgerà i rapporti di lavoro stabili attualmente in essere, il nuovo assetto regolamentativo riguarderà quelli di nuova formazione. Lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, il sostegno ai lavoratori rimasti senza un impiego, attraverso espedienti volti a facilitarne il reinserimento in un mercato del lavoro costruito sul modello della flexsecurity, e il tentativo di colmare l’attuale fossato tra posizioni più o meno garantite, rappresenteranno le fondamenta su cui dovrà ergersi l’edificio del confronto costruttivo, maturo e civile tra le forze sindacali e del mondo produttivo interessate al futuro del Paese, abbattendo sul nascere quel muro che i sindacati hanno minacciato di costruire, alimentando una serie di pretestuose polemiche, sulla presunta scomparsa dell’ articolo 18 dallo Statuto dei Lavoratori nella sua attuale formulazione. Se di revisione dei contenuti della norma che attualmente disciplina il licenziamento per giusta causa si dovrà parlare, lo si dovrà fare in un contesto di rafforzamento dei sostegni al reddito per i giovani nel caso di una loro fuoriuscita anticipata dal mercato del lavoro e di introduzione di strumenti efficaci per la formazione professionale e per il ricollocamento. Tra abrogare, come impropriamente e da più parti detto, e mantenerlo nella sua attuale formulazione, non c’è un’alternativa secca, semmai ci sono una varietà di gradazioni possibili. Ma a sorpresa, il Governo pare che si prepari ad intervenire per decreto sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. La novità sarebbe contenuta, secondo quanto trapelato in questi giorni, nella bozza del pacchetto sulle liberalizzazioni, il decreto legge che il Governo ha promesso di varare entro il 20 gennaio e che è stato affidato al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà. L’articolo 3 della bozza di decreto, da quello che emerge, si intitola: “Sviluppo delle imprese e flessibilità del lavoro” e interviene esplicitamente sull’ “art. 18 della legge 20 maggio del 1970 n.300”a cui verrebbe aggiunto un comma “1 bis. In caso di incorporazione o di fusione di due o più imprese che occupano alle proprie dipendenze alla data del 31 gennaio 2012 un numero di prestatori d’opera pari o inferiore a quindici, il numero di prestatori di cui al comma precedente è elevato a cinquanta”. Il primo comma dell’art. 18, nella sua attuale versione risalente al 1970, impone al datore di lavoro che ha licenziato senza giusta causa (accertata dal Tribunale) di reintegrare il dipendente, se la sua azienda ha più di quindici dipendenti, annullando anche il licenziamento intimato senza giustificato motivo ovvero dichiarandone la nullità. Da decenni l’art. 18 è indicato da molti economisti e politici come una delle cause del nanismo delle imprese italiane: visto che fino a 15 dipendenti ci sono meno ostacoli a licenziare e soprattutto non si rischia di doverli forzatamente reintegrare in azienda per effetto della pronuncia di un giudice, meglio rimanere piccoli. Il governo Monti agisce quindi con questa premessa: se imprese piccole si aggregano e il numero di dipendenti sale, attraverso la fusione, non scatta comunque l’obbligo di reintegro fino a 50 dipendenti. Un approccio pragmatico, come quelli a cui ci hanno abituato “i professori” dimostrando una concretezza non comune a discapito di quell’aura teorica e dottrinale che spesso ammanta e di cui viene tacciato il sapere universitario, che non tiene però conto della delicatezza politica del tema anche se tale contegno si apre alla prospettiva di riavvicinare la nostra legislazione alle soluzioni già adottate in molti altri Paesi dell’euro-zona, che da tempo hanno abbandonato discipline similari a quella enucleata all’art. 18. È, quindi, giallo su questa norma visto che il testo è stato preparato a Palazzo Chigi e non sarebbe ancora neppure arrivato sulla scrivania del ministro Fornero che non sarà felicissima di vedersi scavalcata e che peraltro smentirebbe apertamente la cautela più volte mantenuta dal Presidente del Consiglio rispetto alle continue indiscrezioni sulla questione articolo 18 e su qualsiasi altra materia non espressamente oggetto dei consistenti provvedimenti varati nei primi sessanta giorni di Governo. Il ministro Fornero aveva dimostrato un atteggiamento di apertura nei confronti di una modifica dell’art. 18, rispecchiando la posizione mentale dell’attuale esecutivo per cui niente costituisce un totem immutabile se si riesce a impostare un metodologia riformistica imperniata su un dialogo proficuo. Tutto dipenderà dalla collaborazione dei sindacati che, di certo, ponendosi sul piede di guerra non potranno dare un apporto significativo all’ammodernamento del nostro sistema. Gli incontri bilaterali di questi giorni hanno inaugurato un nuovo tipo di negoziato rispetto alle politiche concertative adottate in passato per la gestione di queste materie. La concertazione triangolare che ha contrassegnato gli anni Novanta si è rivelata spesso inconcludente, quindi, si è deciso di adottare lo schema del dialogo sociale europeo: si ascoltano le opinioni di tutti le parti sociali sul tema della riforma del mercato del lavoro ma poi si adottano i provvedimenti concreti senza scambi e senza negoziati infiniti. Missione e leit-motiv dell’attività del governo è la ristrettezza dei tempi a disposizione, gli incontri pletorici non condurranno a nulla, è necessario fare ricorso alla pragmaticità e alla rapidità. Le prospettive di modernizzazione del mercato del lavoro dovranno essere concrete e non tracciate solo attraverso l’introduzione di nuovi istituti giuridici simbolici del cambiamento; bisognerà predisporre dei sistemi in grado di mettere a punto delle prospettive occupazionali concrete e durevoli che stabilizzano l’attuale precarietà e che quindi possano riverberare degli effetti positivi anche sulla competitività del nostro Paese. Non manca chi propone di uniformare le regole in materia di licenziamento rendendole trasversali tanto al settore pubblico quanto a quello privato, non sarebbe possibile effettuare dei proficui tagli alla spesa pubblica volti alla modernizzazione del Paese senza far cadere il tabù della licenziabilità degli statali. Lo Stato è un’azienda in crisi e quindi in teoria dovrebbe gestirne gli effetti come farebbe un’impresa privata, ricorrendo se del caso anche alla mobilità; sarebbe socialmente equo impostare il riequilibrio delle tutele, che si vuole realizzare attraverso la riforma del mercato del lavoro, attraverso il varo di una serie di misure che non riguardino solo il settore privato.
Per ridurre l’area della precarietà, bisognerà trovare delle soluzioni che riducano drasticamente l’attuale giungla contrattuale e in questo caso le soluzioni con le quali il Governo pare dover fare i conti sono state tutte formulate a sinistra. I modelli con i quali i tecnici dell’esecutivo dovranno confrontarsi risentono di componenti culturali diverse e impongono costi diversi a carico delle imprese; il filo conduttore è rappresentato da un contratto unico a tutele progressive che possa sostituire tutte le altre fattispecie contrattuali atipiche, attualmente vigenti, sostituendole con un’unica forma di ingresso nel mercato del lavoro, valida per i nuovi assunti a tempo indeterminato. La nuova tipologia contrattuale unica diverrebbe una sorta di macro-contenitore entro il quale confluirebbero le varie ed eventuali esperienze lavorative espletate durante la propria carriera dal prestatore. In tale contesto, per le nuove assunzioni, si potrebbe attivare una nuova disciplina di licenziamento, che sulla falsariga di quella che dovrebbe essere la nuova veste dell’art.18, sarebbe consentito nei primi 3 anni di lavoro per esigenze economiche, tecniche, organizzative o produttive a cui conseguirebbe la corresponsione di un equo indennizzo. In questo modello, e secondo le modulazioni e le varianti con le quali è stato proposto da economisti e giuslavoristi, l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori garantirebbe il reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti per giusta causa, quindi rimarrebbe in vigore l’attuale testo solo nel caso di licenziamenti fondati su motivi discriminatori (razza, ideologia politica, sesso…) e per i rapporti pregressi. Al progetto di riforma contrattuale congegnato del giuslavorista Ichino si affiancano altre proposte più morbide, come quella maturata in ambito universitario da Boeri che prevede il cosiddetto “contratto unico a protezione crescente”, mentre la terza via è rappresentata dal “contratto unico di inserimento formativo” che tra gli altri firmatari vede l’ex ministro del lavoro Damiano, la quale dopo essere partita in sordina rispetto alle altre due sembrerebbe dotata più delle altre di qualche chanche per arrivare al traguardo della trasposizione normativa.
Le tre proposte si strutturano sul comune asse portante per cui è previsto un periodo di prova per il nuovo lavoratore pari a tre anni durante i quali si può licenziare, puntano su una graduale stabilizzazione del rapporto di lavoro e semmai ripartiscono diversamente i costi di una ricollocazione del lavoratore licenziato durante il periodo di prova.
Ultimo punto di questo riassetto del mercato del lavoro saranno gli ammortizzatori sociali che vanno assolutamente adeguati e il cui finanziamento verrà foraggiato dal recupero di denaro assicurato dalla riforma previdenziale. Bisogna fondare su basi più eque questo meccanismo che serve a controbilanciare e attutire le crisi cicliche dell’economia italiana e che viene finanziato con fondi messi a disposizione dalle imprese e dai lavoratori, senza il quale chi perde il lavoro, per cause a lui non imputabili, avrebbe di fronte immediatamente lo spettro della povertà, venendosi a determinare peraltro la messa in crisi del sistema. Oggi tutti gli esperti concordano che il sistema della cassa integrazione e della mobilità, nonché dell’indennità di disoccupazione, va aggiornato in maniera da renderlo accessibile a tutti ed estendendo questi strumenti anche a chi è inserito nel circuito delle piccole imprese.
Insomma, ci rendiamo conto della delicatezza delle problematiche sfiorate e all’ordine del giorno nell’agenda intergovernativa e, sotto questo punto di vista, credo che sia da accogliere favorevolmente la circostanza per cui di queste manovre si stanno occupando degli addetti ai lavori. Il fatto che la portata di questi provvedimenti ci appare spropositata e dilaniante, è da riferire alla rapidità e alla straordinarietà di questi interventi necessari per il Paese e inquadrabili in un contesto di politiche sinergiche da adottare in tutta Europa. Ma in fondo il nostro atteggiamento mentale è da imputare ad una politica assuefatta alle logiche di compromesso e abituata a temporeggiare e negoziare, che forse non ha mai adottato le scelte più opportune e anche più brutali per riportare in linea l’equilibrio nazionale e che da questa esperienza, speriamo, possa trarre i dovuti insegnamenti per far sì che ricominci a campeggiare, come sprone per l’azione, l’interesse alla cura del bene comune.
Luciana Cusimano